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Israele: voci contro la guerra

Israele: voci contro la guerra

Dal fronte interno israeliano. Testimonianze contro il genocidio del popolo palestinese. Liberamente tratto da: https://oltreilponte.noblogs.org/post/2024/01/08/dal-fronte-interno-israeliano-testimonianze-contro-il-genocidio-del-popolo-palestinese/

L’operazione militare diluvio di Al-Aqsa del 7 ottobre e la rappresaglia genocida israeliana che in tre mesi ha provocato oltre 30 mila morti e la distruzione completa della Striscia di Gaza, hanno sdoganato le posizioni più estremiste, razziste e genocide già esistenti nella società della cosiddetta “unica democrazia del Medio Oriente”. Dopo aver disumanizzato per anni i palestinesi con una propaganda che aveva l’obiettivo di delegittimare ogni forma di Resistenza all’occupazione militare, dopo il 7 ottobre essi sono stati definitivamente ridotti al rango di animali, subumani, come hanno pubblicamente affermato alti esponenti del Governo di Tel Aviv. Con questo breve e parziale articolo vogliamo dare a chi legge la possibilità di conoscere il punto di vista di coloro che, nel ventre della bestia in un clima di odio genocida, provano a tenere vivi gli ideali internazionalisti, antirazzisti, antimilitaristi. Voci fondamentali da rafforzare e fare conoscere perchè oggi più che mai l’alternativa è il genocidio, l’espulsione forzata di milioni di palestinesi, la tortura come sistema, l’annientamento di un popolo. Queste voci sono l’unica alternativa all’abisso in cui la società israeliana – e noi con loro – sta sprofondando.

Gli attivisti di Mesarvot (un collettivo che sostiene gli obiettori di coscienza israeliani) così raccontano l’involuzione della società israeliana dopo il 7 ottobre:

«Da quel giorno viviamo nella paura. Il livello di odio e di violenza è salito tantissimo negli ultimi mesi, anche nei nostri confronti. Riceviamo molti attacchi pubblici e minacce. Anche protestare e diventato ancora più difficile e il livello di repressione è sensibilmente salito. L’essere un oppositore o un obiettore è ancor di più uno stigma che attira invettive e scatena aggressioni di varia natura. È molto difficile prendere voce pubblicamente, perché è vero che la maggioranza è contro il Governo perché si ritiene tradita da esso, ma è altrettanto vero che la società israeliana si è spostata ancora più a destra. L’opinione pubblica è contro Netanyahu, ma essere contro il Governo non significa esser contro la guerra. Tante persone che la pensavano come me sono state profondamente spezzate dagli episodi del 7 ottobre e hanno cambiato idea. Il gruppo è diventato più piccolo. Prima del 7 ottobre avevamo condotto una campagna contro l’occupazione dei territori palestinesi, accompagnata da un appello, a cui era seguita l’occupazione di una scuola. Riuscimmo ad ottenere le firme di 280 persone, che per noi è un numero molto alto perché significa mettere il proprio nome e cognome in mano alle Forze di Difesa. Stavamo per far partire altre tre campagne politiche che siamo stati costretti a rimandare. Anche io in questo momento ho difficoltà a trovare una soluzione. So soltanto che la soluzione non è quella militare. Penso che, prima di tutto, dobbiamo costruire una contronarrazione che vada oltre la criminalizzazione e la disumanizzazione reciproca».

La giornata del 7 ottobre è così raccontata da Atalya Ben-Abba, refusnik israeliana e attivista contro l’occupazione dei territori palestinesi:

«Nel 2017 ho rifiutato pubblicamente di prestare servizio nell’esercito israeliano. L’ho fatto perché sentivo di non poter prendere parte all’occupazione della Palestina. In seguito ho trascorso quattro mesi in una prigione militare, ma soprattutto ho iniziato a percorrere un cammino di resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana lavorando insieme a partner palestinesi soprattutto nella città in cui sono nata, Gerusalemme. Negli ultimi sei anni, mi sono dedicata ad agire in solidarietà attraverso vari mezzi, uno dei quali è la presenza protettiva. Questo significa accompagnare i palestinesi e usare i miei privilegi di ebrea israeliana per offrire sicurezza, sia a Gerusalemme est che nei territori palestinesi occupati. Nella maggior parte dei casi si tratta di essere presenti agli sgomberi delle case o di accompagnare i pastori minacciati dai coloni. Questa presenza fornisce protezione perché la polizia e i militari in Israele trattano gli ebrei in modo diverso, raramente ci attaccano e per lo più parlano solo con persone di lingua ebraica, per cui possiamo intervenire, filmare e scattare foto.

Sabato 7 ottobre, mi trovavo con degli amici a un turno di presenza protettiva nel villaggio di At-Tuwani, nei Territori Palestinesi Occupati in Cisgiordania. Mentre aspettavamo il pastore che dovevamo accompagnare, uno dei miei amici ha iniziato a ricevere messaggi preoccupanti dalla sua famiglia nel Kibbutz Be’eri. I suoi genitori, i suoi fratelli minori, la sua nonna, la sua zia e il suo zio vivono tutti a Be’eri, quindi ha saputo immediatamente dell’attacco in corso nel kibbutz. Sotto shock, ci ha raccontato che militanti armati di Hamas erano entrati nel kibbutz; i suoi parenti più stretti erano chiusi nella loro stanza di sicurezza, ma sua zia e suo zio erano scomparsi.

Era come un incubo nella vita reale. Siamo tornati al villaggio e lui è tornato a Gerusalemme. Io e gli altri attivisti siamo rimasti di guardia ai confini del villaggio, mentre i soldati israeliani arrivavano e cominciavano a gridare. Hanno minacciato di sparare a chiunque si trovasse all’esterno. Mentre cercavo di documentare la situazione, un soldato, con uno sguardo folle, mi ha spinto a terra. Non molto tempo dopo, un missile di Hamas è caduto nei campi di un villaggio vicino. Sentendo il suo boom, ci siamo resi conto che qui non c’è nessuno spazio sicuro. Essere ad At-Tuwani in quel momento sembrava irreale.

Non sapevamo cosa fare. Dovevamo restare per dimostrare ai nostri partner palestinesi il nostro sostegno? È intelligente rischiare in questo modo? Sarebbe d’aiuto a qualcuno? Allo stesso tempo, pensavo al mio caro amico che era da solo e temeva di perdere tutta la sua famiglia. Dovrei tornare a casa per stare con lui e sostenerlo? E che dire di mia sorella e dei suoi figli, che vivono anch’essi in un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza?

Dopo qualche altra ora ad At-Tuwani abbiamo capito che non potevamo offrire molto altro sostegno: era ora di tornare a Gerusalemme. La strada del ritorno è stata spaventosa. Abbiamo saputo dal nostro amico che ha passato un’ora al confine (fra territori occupati e Stato di Israele ndr). Per fortuna siamo riusciti a tornare a casa più velocemente e ci siamo subito precipitati a casa sua per stare con lui durante una notte piena di orrore. Nel cuore della notte, la maggior parte della sua famiglia è stata salvata, tranne lo zio e la zia, che attualmente sono ancora nelle mani di Hamas come ostaggi nella Striscia di Gaza.

I giorni successivi sono stati spaventosi e travolgenti. Una settimana dopo il nostro soggiorno, un uomo palestinese è stato colpito a bruciapelo ad At-Tuwani da un colono ebreo, mentre un soldato israeliano stava a guardare. Alcuni amici sono stati aggrediti dai coloni a Wadi Sik, sempre in Cisgiordania, e l’intero villaggio è stato sgomberato. Gli orrori della guerra sono diventati sempre più atroci, con sempre più persone che soffrono e muoiono.

Attraverso tutte queste difficoltà, stare insieme ci aiuta, ci rafforza. Lentamente abbiamo capito che abbiamo il potere di incidere su questa realtà, anche aiutando una sola persona. Abbiamo ricominciato a organizzarci, accompagnando i lavoratori palestinesi a casa – per non ferirli più di quanto non abbiano già fatto – e sostenendo le famiglie che hanno perso la casa. La solidarietà dà speranza; possiamo lavorare insieme per porre fine a questa guerra.»

In un clima di guerra totale che sta legittimando il genocidio del popolo palestinese, una piccola minoranza di militanti politici, pacifisti e attivisti contro l’occupazione sta cercando di aprire delle crepe nel muro di odio costruito scientificamente dai principali media. Come si può vedere dalla pagina Facebook Refuser solidarity network a Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa si sono ripetute piccole manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco e la fine del Genocidio del popolo palestinese. Riportiamo alcune testimonianze che, unite a quelle sopra, rendono l’idea del clima di estrema repressione per coloro che di fatto sono definiti traditori, nemici interni.

Gaia Dian, una pacifista israeliana contro l’occupazione di Haifa, ha così descritto, in un video pubblicato sulla pagina Fb Refuser Solidarity Network il clima esistente in Israele per chi si oppone al massacro in corso a Gaza:

«Io sono Gaia Dian, ho 23 anni e vengo da Haifa, sono un’attivista nel blocco anti-occupazione. Dal 7 ottobre, io e i miei amici siamo stati aggrediti e qualche volta arrestati per i nostri tentativi di protestare contro le atrocità in corso a Gaza e Cisgiordania. La libertà di pensiero e di manifestare è sempre stata limitata qui, ma in questi giorni è praticamente impossibile dire di essere contro la guerra senza temere per la propria sicurezza o la propria libertà, con il costante rischio di essere arrestati e portati via. La situazione è ancora più pericolosa se tu sei palestinese (in Israele il 20% della popolazione è palestinese ndr). Circa un mese fa sono stata arrestata per avere protestato contro la guerra presso l’Horev center di Haifa. Durante il fermo nella stazione di polizia i poliziotti cantavano canzoni sul ritorno all’insediamento coloniale di Gush Katif (colonia presente a Gaza fino al 2005 poi smantellata per decisione dell’allora capo del governo israeliano Ariel Sharon ndr) e sull’uccisione di gente a Gaza. Ci hanno chiamato puttane e traditori. Non possiamo farci ridurre al silenzio come loro vorrebbero. Non possiamo stare in silenzio mentre le persone a Gaza vengono massacrate e le persone in Cisgiordania soffrono per mano dei coloni e dei militari. Prego tutti di attivarsi contro la repressione che ci vuole ridurre al silenzio ma, ancora più importante, contro il massacro che è in corso a Gaza adesso».

L’insegnante israeliano Meir Barochin, nel mese di novembre è stato arrestato per avere condiviso su Facebook i nomi e le storie di innocenti palestinesi assassinati a Gaza:

«Il 9 novembre ho ricevuto una telefonata da parte della polizia che mi chiedeva di raggiungerli per un interrogatorio. Io ho chiesto: “con che accuse?” e loro hanno parlato di sedizione. Così hanno deciso di interrogarmi sulla mia intenzione di commettere un atto di tradimento e disturbo dell’ordine pubblico. Il mio nome è Meir Barochin, sono un insegnante di storia da 35 anni e sono un’attivista contro l’occupazione in un gruppo chiamato Looking the occupation in the eye (Guardando l’occupazione negli occhi). Prima del mio arresto, sono stato licenziato dal mio posto di lavoro a causa dei miei post su Facebook. Il ministero dell’educazione ha sospeso la mia licenza così non ho più potuto lavorare o insegnare da altre parti in Israele. Con i miei post su Facebook ho provato a personificare i palestinesi in modo che gli israeliani fossero capaci di vedere i palestinesi come esseri umani e forse comunicare con loro in modo non-violento. La maggior parte degli insegnanti – e non solo insegnanti – hanno paura di parlare. Loro sanno, hanno capito molto chiaramente che in questi giorni ogni cittadino israeliano che mostri il minimo sentimento verso le persone di Gaza, contro l’assassinio di civili innocenti, è perseguitato politicamente. Se noi vogliamo rispondere a ciò che Hamas ha fatto il 7 ottobre, non possiamo lasciare i nostri principi morali, non possiamo distruggere la legge internazionale, non possiamo uccidere civili innocenti. La maggior parte degli israeliani pensa che la strada per risolvere il problema è militare. Io rifiuto questo, ci può essere solo una soluzione politica. Non possiamo controllare milioni di palestinesi negando loro i diritti base e aspettarci che i palestinesi lo accettino per sempre. Io non supporto la violenza palestinese ma nemmeno quella israeliana e della sua occupazione. La soluzione può essere solo politica, non militare. Fermiamo la guerra, fermiamo le uccisioni. Iniziate un negoziato per riportare indietro gli ostaggi ma basta attaccare e colpire civili innocenti. Fermiamo l’occupazione.»

Nel novembre 2023 in un’intervista rilasciata da un anarchico israeliano così veniva dipinta la situazione riguardo allo sviluppo di una possibile opposizione interna alla guerra:

«Mentre scrivo queste righe, in Israele non c’è alcuna mobilitazione contro la guerra. Praticamente tutti sono in cerca di vendetta. Gli israeliani si stanno unendo nel loro pieno sostegno alla guerra e chiunque parli apertamente si sta mettendo a rischio. È davvero difficile spiegare come il fascismo si stia rafforzando dietro la copertura della guerra. Gli studenti vengono espulsi dalle università e i lavoratori perdono il posto di lavoro se sono arabi. Gli studenti sono incoraggiati a fare la spia ai loro compagni studenti e a mandare mail dicendo che qualsiasi “sostegno a Hamas” (che nell’atmosfera attuale potrebbe facilmente significare anche chiedere la cessazione della carneficina a Gaza) sarà accolto con tolleranza zero. Si stanno approvando leggi secondo le quali danneggiare la “morale nazionale” (che, ancora una volta, potrebbe essere interpretato in senso ampio) sarebbe punibile con il carcere. I palestinesi vengono braccati a Gerusalemme Est, con notizie di poliziotti che entrano in imprese arabe, costringono le persone ad consegnare i loro telefoni così da cercare un eventuale supporto a Hamas. Bande di estrema destra hanno circondato la casa di un giornalista ultra-ortodosso di sinistra dopo averlo accusato di sostenere Hamas e hanno sparato petardi all’interno della sua casa, costringendo la polizia a proteggerlo e ad aiutarlo a fuggire. In generale, le persone hanno paura di aprire bocca. C’è una certa mobilitazione per fare pressione sul governo affinché rilasci i prigionieri e gli ostaggi, ma alcuni dei manifestanti sono stati attaccati da poliziotti e fascisti a Gerusalemme e Haifa. Qualsiasi organizzazione adesso incontrerebbe una rapida repressione».

Tuttavia all’interno di questa situazione alcune iniziative contro la guerra si sono svolte soprattutto a Gerusalemme e Tel Aviv. Dall’attacchinaggio di manifesti che riportavano le foto dei palestinesi uccisi a Gaza ai presidi di fronte al Consolato USA contro il rifornimento di armi all’Esercito israeliano, si sta formando – in condizioni politiche proibitive – l’embrione di un movimento contro la guerra e che, perlopiù attraverso azioni simboliche, sta tentando di dare un volto, un nome ed un cognome ai palestinesi che l’Esercito sta uccidendo in massa. Un tentativo di aprire delle crepe nella asfissiante propaganda guerrafondaia di Stato in cui le intimidazioni poliziesche sono continue, come riportato anche sulla pagina Instagram radical.bloc.tlv in cui, in un post pubblicato verso la fine di dicembre, veniva raccontato come «alcune ore prima che la nostra protesta avesse luogo, la polizia ha chiamato numerosi organizzatori e militanti contro la guerra sui loro numeri privati minacciandoli di arresto se avessero manifestato».

Come sopra accennato anche il movimento degli obiettori di coscienza dopo il 7 ottobre ha attraversato delle difficoltà. Dopo un certo spaesamento, alcuni giovani stanno riprendendo voce pubblicamente rifiutando di prendere parte al massacro di civili in corso a Gaza, come ha fatto ad esempio il 18enne Tal Mitnick, il primo obiettore israeliano ad essere incarcerato dopo il 7 ottobre. I militanti contro l’occupazione lo hanno sostenuto prima del processo fuori dal tribunale militare organizzando una manifestazione antimilitarista urlando in piazza: “Soldati ascoltate! Rifiutate di partecipare al massacro!”.

La scelta di Tal è condivisa anche da Sofia Orr, altra giovane israeliana 18enne che il 25 febbraio rifiuterà di arruolarsi con le stesse motivazioni di Tal Mitnick ovvero che non esiste soluzione militare per un problema politico.

Nella notte fra il 3 e 4 gennaio attivisti israeliani contro l’occupazione hanno attacchinato sui muri della città di Gerusalemme immagini che riportano la distruzione di Gaza e le stragi di civili, censurate e nascoste dai media in Israele. Il 6 gennaio nella stessa città una manifestazione pacifica è stata aggredita dalla polizia. Altre manifestazioni sono attese nelle prossime settimane a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa.

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